Di cosa parliamo
Torniamo a parlare di diritto all’oblio, la possibilità cioè per ogni cittadino, colpevole o innocente che sia, di pretendere la cancellazione dal web dei propri dati, nome e cognome e ogni riferimento a fatti di cronaca che lo hanno visto coinvolto ma che non sono più attuali e per i quali è venuto meno l’interesse pubblico.
Come risaputo il diritto all’oblio risponde all’esigenza di non far associare il proprio nome a contenuti presenti su Google, sui social network o più in generale sul web. Nella sua accezione più ampia è, infatti, una modalità attraverso la quale si esplica il nostro diritto all’identità personale: si chiede di obliare ciò che riteniamo non debba essere più parte della nostra identità personale condivisa online.
I motori di ricerca, in pratica, non devono più pescare notizie obsolete proponendo tra i risultati di ricerca link ad articoli che non siano più di interesse pubblico. Quando si esercita questo diritto l’azienda titolare del giornale online o di qualsiasi portale web, che ha pubblicato, oltre ai fatti, anche i nomi dei soggetti coinvolti, è tenuto, senza potersi avvalere del diritto di cronaca , a cancellare immediatamente i dati e/o a deindicizzarli in modo tale che i link all’articolo non sia più presente su Google o sugli altri motori di ricerca.
Abbiamo già descritto la disciplina che regola il diritto all’oblio e i vari passaggi per eliminare per sempre un contenuto da Google o per cancellarsi per sempre da Facebook ma analizziamo alcuni aspetti tecnici per comprendere meglio come tutelare la propria privacy online.
Differenza tra rimozione e deindicizzazione del contenuto
È interessante sapere che nell’eventualità che l’interessato a obliare la propria identità rientri in una delle situazioni previste dall’art.17 c. 1 del GDPR, il titolare dei trattamento dei dati personali del portale o l’azienda che ospita l’articolo a cui fanno riferimento le vicende personali dell’interessato deve prevedere modalità volte ad agevolare l’esercizio dei diritti da parte dell’utente. In tal senso, è opportuno che l’azienda crei un processo che veda il coinvolgimento almeno di:
– un referente legale, per valutare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto alla cancellazione (es. per valutare se sussista il caso di accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria o il caso di trattamento illecito);
– un referente IT per valutare gli aspetti tecnici in riferimento alla cancellazione;
– referenti privacy interni che si occupino della cancellazione in caso di trattamenti effettuati esclusivamente in forma cartacea (es. customer service per richieste dei clienti, HR per quelle dei dipendenti, ufficio acquisti per terze parti, eccetera).
È intuibile che si tratta di un processo complicato e oneroso che raramente, soprattutto nel caso di testate locali poco strutturate, viene realizzato. Ottenere la rimozione del contenuto è in questi casi molto difficoltoso ed è quindi consigliare richiedere l’alternativa alla cancellazione e cioè l’anonimizzazione dei dati, ossia senza possibilità di re-identificazione dell’interessato, ad esempio mettendo le iniziali al posto del nome e cognome per esteso. In questo caso il contenuto non viene rimosso ma deindicizzato.
Con il termine deindicizzazione si identifica il procedimento per la rimozione di contenuti e di informazioni dall’indice dei motori di ricerca, come Google o Bing. Opposto rispetto al procedimento d’indicizzazione in SERP, il processo di de-indicizzazione non prevede la rimozione del contenuto dalla rete o dal portale che lo ospita, ma limita la visibilità all’interno dei risultati offerti dai motori di ricerca.
Quindi semplicemente deindicizzare significa che il contenuto rimane in rete, è presente, ma non è accessibile tramite ricerca.
Ecco chiarito perché la maggior parte delle volte è sufficiente procedere con la deindicizzazione e non con la rimozione dei contenuti.
Dopo quanto tempo dalla sua pubblicazione possiamo deindicizzare o cancellare un articolo?
È diventato una prassi stabilire in due anni il tempo dopo il quali è possibile richiedere la rimozione di un contenuto lesivo dell’immagine di una persona ma si tratta di un termine arbitrario, in attesa dell’attuazione della nuova disciplina comunitaria sulla privacy, Questa disciplina dovrebbe regolamentare il diritto all’oblio definendo anche i tempi massimi di permanenza dei nomi su internet.
Il tutto, quindi, viene messo nelle mani del singolo giudice qualora la richiesta approdi in sede legale ma la Cassazione ci aiuta a tracciare, su questo aspetto, una prima importante conclusione definendo che:
l’attualità o meno della notizia va riferita non già al processo, il quale, se ancora in corso, rischierebbe di dilatare i tempi del diritto all’oblio in modo enorme, subordinandolo ai ritardi della giustizia italiana e, peraltro, differenziandolo da soggetto a soggetto, al contrario bisogna avere a riferimento solo il fatto storico. Per cui, ad esempio, se la notizia si riferisce a una contestazione del 2013, cui poi sia seguito un processo con un rinvio di udienza al 2016, il fatto deve ritenersi ormai vecchio poiché, da esso, sono passati ben tre anni.
Come dire che la Cassazione, con la sentenza depositata l’altro ieri, ha “parcellizzato” il diritto all’oblio (considerato che la vicenda è tuttora in svolgimento) legandola a ogni singola fase procedurale.